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 Il presepe laico di Francesco

Il Papa che secolarizza la Chiesa è anche colui che vuole ricristianizzare la società

di Piero Schiavazzi

Un cielo terso e insperato, dopo un intenso mese di piogge, offre lo sfondo del discorso Urbi et Orbi, che il Papa rivolge, asciutto e scenografico, alla città e al villaggio globale: “Ci sono tenebre nei conflitti economici, geopolitici ed ecologici, ma più grande è la luce di Cristo”.

C’è un giorno all’anno in cui la Chiesa, resa minoritaria e spinta in angolo, statico e statistico, dalla secolarizzazione incalzante, torna in maggioranza. Rovescia il trend e recupera d’un tratto la primazia, di share e di popolo. Come per miracolo, forte di un annuncio che travalica il recinto religioso e si fa istituzionale tout azimut: nel mito e nel nome del Dio - bambino, icona insuperata della dignità di ogni uomo, espressa e ritrasmessa nelle immagini del presepe.

Un brand bimillenario, il più fashion e duraturo nella cronologia del pianeta, eppure suscettibile di massiva, progressiva erosione. Patrimonio da tutelare in modo dinamico, in guisa di brevetto e marchio Doc, sul quale fare leva per ripartire: “La tradizione è garanzia del futuro e non custodia delle ceneri”.

Così, nel settimo Natale romano Francesco ha scritto al mondo due “letterine”, destinate a completare il disegno e lasciare un segno, papale – papale, per comprendere senso e complessità del pontificato.

Come una sortita. Controffensiva e riscossa di un leader dato da molti sulla via del tramonto, quanto meno in arretramento generalizzato e su ambo i fronti. Quello interno, tra le destabilizzazioni e i sussulti di una incessante Vatileaks. E quello esterno: dai Luoghi Santi - zona elettiva d’influenza della diplomazia ecclesiastica, dove il triangolo inverosimile ma reale tra israeliani, sauditi e statunitensi la estromette dalle geometrie di pace - all’America Latina, dove il revival del neoliberismo taglia, dolorosamente, il cordone ombelicale fra Bergoglio e il proprio universo geografico - ideologico di provenienza.

Per non parlare, dicevamo nell’incipit, del secolarismo, che ha indotto il Pontefice, Sabato 21 dicembre, di fronte al suo stato maggiore, a certificare la crisi con frase di effetto assicurato per i posteri: “Non siamo nella cristianità, non più!”.

L’augurio – non augurio, alla stregua di un dolce non dolce, o di un panettone senza zucchero, scandisce il Natale di magro della curia e sancisce i tempi lunghi della rimonta, nei giorni del solstizio d’inverno, i più corti dell’anno, quando il calendario ha ormai toccato il fondo e la luce comincia lentamente, timidamente a risalire la china.

Due “lettere” dunque, con duplice passaggio e impronta unitaria, nella cornice del medesimo paesaggio, politico e culturale.

Da un lato il rilancio del presepe, “nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle piazze”, con una nota in favore degli allestimenti che sostituiscono alla grotta i palazzi e le dimore in rovina, simbolo di decadenza della città terrena e delle sue istituzioni, che il cristianesimo viene storicamente a rivitalizzare.

Dall’altro l’abolizione del segreto pontificio in caso di abusi, assestando un colpo irreversibile ai privilegi del clero – così è stato percepito nell’immaginario collettivo - e privandolo di un rifugio davanti all’intraprendenza - intransigenza dei tribunali, fra indagini “eccellenti”, che investono vescovi, ed “eminenti” condanne, che si abbattono su membri del collegio cardinalizio.

Insomma, sintetizzando, il Papa che secolarizza la Chiesa come nessun altro e la sottopone, giudizialmente, al primato degli stati, è anche colui che vuole ricristianizzare la società e assoggettarla profeticamente - non gerarchicamente - al primato di Dio.

Lo conferma il tentativo di rafforzare, ancorandolo al divino, ergo assolutizzandolo, il principio di fratellanza umana, vessillo che il Pontefice non perde occasione d’innalzare, nel video registrato insieme al socialista “devoto” Antonio Guterres, Segretario dell’ONU, figura di punta di un cattolicesimo chiamato a impegnarsi e impregnare di sé la politica, senza etichette, bensì con la testimonianza dei credenti, attivi negli opposti schieramenti.

Come se il messaggio antropologico e istituzionale del dies natalis precedesse quello teologico e confessionale, nel sentire di Francesco. E come in definitiva se accanto al Bergoglio riformatore, progressista e vagamente anarchico ne coesistesse un altro, autarchico, tradizionalista e restauratore della Civitas Christiana.

Personalità multiforme, di un papa missionario e anticlericale al tempo stesso, che si realizza e si esprime, similarmente a un puzzle, proprio nel presepe: luogo che a guardar bene funge da contraltare, complementare, al cenacolo. Un set dove non compaiono sacerdoti e il primo ciak, in vero, ha per protagonisti unicamente i laici, sovente inconsapevoli del ruolo riservatogli dal copione. Ma non per questo meno decisivi.

“La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni”.

Le parole del Cardinale Martini, sulle labbra del Papa gesuita, gelano all’improvviso l’uditorio dell’Aula Clementina e abbassano il termometro di un inverno tiepido, benché burrascoso. Al posto del traguardo a cifra tonda del “20 più 20”, Francesco evidenzia un pessimistico “meno 200”.

Un gap da colmare con un cambio di paradigma, cercando la Chiesa fuori dai confini, sociologici o geopolitici. Nelle aree urbane, “dove dimorano popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio”, anche a Occidente. Oppure puntando l’Asia, come si addice a una istituzione che sorta sotto i cieli d’Oriente, quello Medio, venti secoli fa e sviluppatasi a Ovest, tra Europa e Americhe, nel primo e secondo millennio della sua storia, si vede ora obbligata, sulla soglia del terzo, a riprendere la rotta del Far East, quello più estremo, dove gravitano i destini e i mercati dell’Orbe.

In tale contesto la rivolta delle città, che con obiettivi e modalità diverse, da Hong Kong a Beirut a Greta Thunberg, da Santiago alle Sardine, costituisce la novità dirompente, dirimente del 2019, ha nella “incarnazione” il denominatore comune, ossia nella scelta - lo hanno scritto i fondatori e lo ha sottolineato con acume Michele Serra – di esprimere un pensiero mediante il corpo: “L’unico elemento non manipolabile nel tunnel solipsistico dei social e della comunicazione mediata”, rendendo implicitamente omaggio alla genialità e attualità del Vangelo.

Se così è, aggiungiamo, si può parlare con riguardo all’Italia di un Natale della politica. “Il web si fece carne”, diremmo, rilevando la sorprendente affinità di linguaggio (“dialogo”, “ascolto”, “avvio di processi”) tra il pescatore di uomini, al timone della barca di Pietro, e i leader del movimento, ma constatando per contro il ritardo stridente, a bordo, dell’equipaggio ecclesiale, impreparato nel complesso a gettare le reti e cogliere l’attimo.

Urbi et Orbi. Quando Bergoglio a mezzodì opera il consueto giro d’orizzonte, le sue parole approdano rapide sulle coste del globo, le più martoriate: Ucraina e Yemen, Siria e Terra Santa, Venezuela e Golfo di Guinea, per inoltrarsi dentro fino al Sahel e riprendere subito il mare, trasformando la barca in barcone: di boat people. Inseguendo la Betlemme mobile, imprendibile, cogente - coinvolgente delle migrazioni. Epicentro di un gigantesco vortice, un maelstrom che si allarga e non risparmia in crescendo nazione alcuna. Meta di un censimento planetario con cui tutti, uomini e stati, dovranno prima o poi fare i conti e registrarsi, come Maria e Giuseppe, fuggendo le mattanze d’innocenti e dando corpo a speranze di rinascita.


Piero Schiavazzi

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